«Se c’è una cosa in cui i sabaudi sono estremisti è l’understatement. Mai sopra le righe, mai troppo entusiasmo, mai troppa disperazione. Il protagonista del romanzo è un ragazzo cresciuto all’ombra della cucina di un’osteria delle Langhe che verso la fine della Seconda guerra viene arrestato e deportato. Finisce nel cuore del Terzo Reich a servire nella cucina di un circolo ufficiali della Wehrmacht. Laggiù la sua vita non cambia: costante, regolare, mai sopra le righe, neppure nel cuore della più grande tragedia del ventesimo secolo».
Su Sabaudità l’intervista a Livio Milanesio, autore di La verità che ricordavo.
La fine della Seconda guerra mondiale è nell’aria, ma nella campagna piemontese il vecchio Benito Sereno spera che duri ancora quel tanto che gli serve per intascare una lauta ricompensa, consegnando al regime fascista tre “articoli” interessanti: Michele, un partigiano, suo fratello minore Dino, colpevole solo di avere fattezze giudaiche, e la ribelle Teresa, la madre che li protegge con le unghie e con i denti. Michele sarà deportato a Chemnitz e Dino a Königsbrück. Nel suo viaggio il ragazzo verrà accompagnato da uno strano personaggio, un nano “di eccezionale altezza” che gli farà da guida. All’Offizierskasino del lager vivrà una prigionia “dorata” che rafforzerà in lui l’attitudine a distogliere lo sguardo dall’orrore che lo circonda. Nella palazzina del Circolo stringerà amicizie, imparerà a cucinare e intreccerà una delicata storia d’amore con una Helferin tedesca. Ma la guerra incombe: arrivano i bombardamenti, l’avanzata sovietica e quella degli americani, il crollo della Germania nazista. Dino ritrova Michele, segnato dalla prigionia, e vagando per la Germania distrutta è finalmente obbligato a vedere tutto quello che gli era stato risparmiato: le fosse dei cadaveri a cielo aperto, le vittime delle deportazioni, la disumanità, la distruzione.
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